Per questo ottobre mi son presa l’abitudine del post di lunedì mattina presto, che è freddino e nebbioso, ed è più facile iniziare sotto le coperte scrivendo a voi: un post da esattamente non lucida, con qualche refuso e ripetizione, e che dopo 24h sto ancora cercando di correggere! ;)
Allora mezza addormentata mi metto qui, e continuo il discorso iniziato proprio lunedì scorso, quello della vendemmia, di Colle Florido, e dei miei amici Daniela e Andrea, della stagionalità, della tradizione e dell’innovazione, con una leggera virata, oggi su una ricetta a me davvero cara.
Quindi come vi avevo promesso, mentre lunedì scorso abbiamo parlato di un dolce semplice per una merenda in vigna, oggi andiamo con uno dei miei dolci preferiti di sempre, che viene dalla vigna, perchè si tratta di un lievitato a base di mosto.
A ottobre, el grano spanne e ‘l vino s’arepone, dicevano una volta.
E con il mosto si fanno gli odorosi biscotti e altra delizie.
Questo mese inoltre, ce mena castagna sorbe e mela. L’oliva è matura
e puntuale come un ordine il proverbio dice quanno San Francesco va per
via, caccia l’ojo, ‘nte l’ulia.
Per il cacciatore è un mese d’oro. Fino al giorno di San Luca, c’è il passo
delle palombe: Son buone allo spiedo con salvia e rosmarino, lardellate e “spilottate”.
Il mosto… Che fascino fin da bambini, quando il vino non fa proprio per noi, ma quella bevanda che un po’ gli è parente invece sì, dolce dolcissima e che per qualche ancora inesplorata magia proprio vino diventerà.
Altro non è che succo d’uva prima della fermentazione, risultato della pigiatura o torchiatura degli acini e che nella tradizione veniva anche ridotto in vino cotto o mosto cotto o sapa, uno sciroppo d’uva che si ottiene sia da uva bianca che da uva rossa, ed è tipico di Emilia, Romagna, Marche, Puglia, Basilicata e Sardegna.
La sapa, ch’altro non è se non un siroppo d’uva, può servire in cucina a diversi usi poiché ha un gusto speciale che si addice in alcuni piatti. È poi sempre gradita ai bambini che nell’inverno, con essa e colla neve di fresco caduta, possono improvvisar dei sorbetti
(Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, 1895)
La cucina tradizionale contadina e povera era solita usare il mosto sia per sia per i dolci casalinghi che per dare più sapore a piatti poveri come la polenta o per intingervi altre pietanze come lo gnocco fritto (in Emilia), o come i cuculicchi (basilicata, ne avevamo parlato tanto tempo fa, qui <3)
Mi sono resa conto solo vivendo a Roma che “i biscotti di mosto” erano una specialità tipica del territorio, in particolare di Fabriano (ne esisteranno mille varianti regionali, anzi, se ci va di condividere info, link, ricette, versioni della mamma della nonna o dello chef, io ne sarei felicissima!); perchè davo per scontato che ovunque si preparassero, e si facessero esattamente come mia mamma e tutti i forni della mia città li realizzano…
Parlandone in giro però ho capito che non era una preparazione così diffusa, o perlomeno con il nome che gli diamo noi.
“biscotti”, o “maritozzi”.
Che poi di differenza ne passa… Due parole così diverse in merito alle quali mi sono interrogata fin da piccola, e delle quali sono venuta a capo sono cucinandoli per la prima volta e facendo un po’ di ricerca.
Il libro di riferimento a cui mi sono affidata, o meglio da cui sono partita, adorato, l’ho ricevuto in regalo da una ragazza che ho conosciuto in occasione di un incontro a cui qualche anno fa sono stata invitata dall’associazione culturale Fabricamenti: un appuntamento di INTERNO.giorno dal titolo TEMPI DI COTTURA, un vero e proprio luogo in cui insieme ad una “nonna” (Nonna Palmira), la padrona di una casa privata aperta per l’occasione (Roberta di In the mood for love), e tutti i presenti, abbiamo intavolato una discussione su come sia cambiato il concetto di cucina dalle colazioni di campagna, dalle ricette ‘della guerra’ fino ai nostri giorni, a ai blog di cucina e alle trasmissioni televisive.
E’ lì che una ragazza dell’organizzazione, appena conosciuta, mi ha fatto dono di quello che forse è uno dei libri più magici di cucina che io abbia mai ricevuto, che ha cambiato per sempre il mio modo di intendere la cucina, o forze semplicemente ha rafforzato qualcosa che c’era già, che narra di ricette per mezzo di qualcosa che va oltre gli ingredienti, e che non si più definire bene se non attraverso i racconti dei nonni e degli zii, o i gesti di mia mamma in cucina quando ero ancora piccola e la guardavo impastare…
Si tratta dell’ANTOLOGIA DELLA CUCINA POPOLARE,COMUNITA’ MONTANA ALTA VALLE DELL’ESINO, un ricettario fantastico, frutto di una ricerca degli alunni delle scuole elementari e medie di tutto il distretto scolastico di Fabriano, svolta durante l’anno scolastico 1982-1983 e dedicato a tutte le nonne e le bisnonne della Comunità Montana.
Non sto a dirvi che cosa significhi per me questo libro, anche più di Artusi, de Il talismano della felicità, e del libro della Gosetti della Salda, tutte pietre miliari della mia ricerca in merito alla cucina tradizionale italiana, che abbracciano ad ampio spettro la cucina italiana, ma che, ovviamente, non si inerpicano per i meandri delle cucine tradizionali locali, in profondità, per forza di cose..
Questo libro mi fa pensare alla mia amica Marina di La Tarte Maison, dalla quale ho imparato tanto in merito alla ricerca sulla cucina tradizionale, e della quale amo l’approccio delicato, rispettoso, ma anche la capacità di reinterpretare con enorme eleganza, e sono certa che piacerebbe da matti alla mia amica Daniela, che vedete qua sotto tutta intenta a raccogliere l’uva, e che ci scommetto quello che volete che da quando mi ha regalato al volo, prima della partenza, un po’ di mosto di vino rosso, al mio accenno “ci faccio i biscotti”, è diventata super curiosa di vedere (e provare) la ricetta.
Lei, che viene dalla haute cuisine francese (e pure italiana!), ma che ama gli ingredienti semplici, e pure un bel po’ impastare.
Allora ecco, vi trascrivo prima la ricetta da qui sono partita, quella dell’antologia popolare (sono certa che non potrete fare a meno di notare le dosi ;)):
i biscotti di mosto
Due litri di mosto
un chilo di massa del pane
800 grammi di zucchero
mezzo litro di olio d’oliva
200 grammi di lievito di birra
100 grammi di anici
farina quanta ne prende
due rossi d’uovo
Sciogliere la massa col mosto: aggiungere il lievito diluito in acqua tiepida. Unire pian piano tutti gli altri ingredienti.
Lasciar lievitare in ambiente caldo fin quando la pasta non ha raddoppiato il suo volume.
L’impasto deve essere molto morbido.
Dare la forma di filoncino o di trecce.
Allinearli nelle teglie unte di strutto e far lievitare ancora.
Con le dita, spalmare il rosso d’uovo sul dorso dei biscotti.
Cuocere nel forno a legna. A cottura ultimata, debbono avere il caratteristico colore bruno dorato.
I biscotti di mosto raffermati un paio di giorni e tagliati a fette seccate al forno, si mantengono chiusi in sacchetti di lino, per cent’anni. <3E poi la “mia”, ovvero come ho proceduto io nel farli partendo da questa (che meraviglia però le ricette come le scrivevano una volta… lo so che era, o sembrava, più difficile da interpretare, ma oggi tra calorie, tempi di esecuzione, di cottura, di riposi, di preparazione, tutto rigorosamente dichiarato, magari in tabella, e il continuo uso di allocuzioni come “in una pentola”, come se facessimo bollire l’acqua per la pasta in padella ;)) a volte le ricette le ammazziamo pure un po’… ;)).
Cmq tornando a noi e in sostanza: ho voluto preparare anche la massa con il mosto, l’ho fatta lievitare 3 ore, e poi una volta pronta l’ho usata per impastare e poi lievitare (un’intera note, nel mio caso in frigo) il resto dell’impasto. Il giorno dopo (era domenica) ho tirato fuori l’impasto dal frigo, l’ho portato a temperatura in 2-3 ore, ho realizzato i piccoli “maritozzi” che vedete qua sopra e li ho fatti lievitare ancora qualche ora. Nel primo pomeriggio della domenica erano pronti. Morbidissimi e incredibilmente buoni e profumati.
BISCOTTI DI MOSTO MARCHIGIANI (per circa 25 biscotti)
Per la “massa”
150 g di farina forte (W 350)*
100 g di farina tipo 1
10 g di lievito birra
150 gr di mosto d’uva (sia rossa che bianca)
Per l’impasto
400 g di massa
250 g di mosto d’uva (sia rossa che bianca)
150 g di zucchero semolato
12 g di anice
125 g di olio extravergine d’oliva
150 g di farina forte (W 350)*
400 g di farina tipo 1
125 g di uvetta fatta rinvenire in un po’ di mosto preso dai 250 g e poi riutilizzato nell’impasto una volta strizzati
per spennellare (sciroppo di zucchero)
65 g di zucchero portati a bollore con 50 g di acqua e poi lasciati raffreddare.
Preparate la massa aggiungendo il lievito di birra in una cavità ricavata nelle farine precedentemente mescolate a fontana e aggiungendo un po’ del mosto fatto cuocere qualche minuto e poi fatto ben intiepidire (non deve essere caldo ma solo appena tiepido!); aspettare qualche minuto e aggiungere il resto del mosto. Impastare fino ad ottenere un panetto piuttosto sodo. Far lievitare al riparo dalle correnti per due o tre ore o fino al raddoppio.
Lavorare in una grossa ciotola o utilizzare la planetaria e fate cuocere il resto del mosto per qualche minuto e poi fate di nuovo intiepidire. Sciogliervi la massa, unirvi quindi qualche cucchiaio del mix di farine precedentemente mescolate e iniziare a lavorare, alternando farine e zucchero; quando l’impasto inizia a prendere forma, prima di finire la farina, unire uvetta e semi di anice, e quando l’impasto comincia a stare insieme ed essere incordato, unire lentamente l’olio d’oliva, continuando a mescolare e aiutandosi con una spatola. Aggiungere eventualmente poca farina sino ad ottenere un impasto morbido ma che si stacca dalle pareti della ciotola.
Continuare a lavorare per far assorbire l’olio, poi rovesciare l’impasto sulla spianatoia, lavorarlo ancora poco, poi formarvi una palla e trasferire, coperto, in una ciotola capiente unta di olio.
Aspettare qualche ora o il tempo necessario ad avviare bene, a temperatura ambiente e al riparo da correnti, la lievitazione, e poi se è sera trasferire per la notte in frigo, oppure lasciar lievitare fino al raddoppio.
Passate circa 8 ore notturne o il tempo (più breve) necessario al raddoppio a temperatura ambiente, trasferire l’impasto fuori dal frigo e completare la lievitazione ancora qualche ora nel primo caso.
Dividere l’impasto in pezzi da 60 g e formate delle palline, coprirle con un telo pulito e lasciar riposare per 10 minuti, dopo di che schiacciarle leggermente e avvolgerle a filoncino (oppure per formare dei filoncini sottili e piegarli nella sua metà attorcigliandoli su se stessi, poi sigillandone le estremità facendo una leggera pressione).
Disporre i filoncini e le treccine su teglia ricoperta con carta da forno, ben distanziati, e lasciar raddoppiare (io ho realizzato un filoncino da 300 grammi circa per fare i biscotti della prima foto). Ci vorranno ancora circa un paio di ore.
Preriscaldare il forno a 180°C e cuocere le treccine da 60 g per 15-20 minuti; qualche minuto in più invece occorrerà al filoncino: verificare la cottura. Appena sfornati lucidarli con lo sciroppo preparato.
Per realizzare i veri e propri Biscotti di mosto secondo tradizione, tagliarli a fettine, meglio il giorno successivo, e tostarli per alcuni minuti in forno caldo fino a quando risulteranno leggermente dorati.
*Nelle ricette tramandate e nell’Antologia della cucina popolare non veniva indicato il tipo di farina. Volevo usare una farina di forza ma al tempo stesso ho pensato che nella tradizione popolare fabrianese non è che anticamente si impiegasse tutta questa manitoba, quindi ho mescolato la suddetta con una farina un po’ più rusticotta come la 1 ;)
Il vino che vedete in foto sono il rosso, Erba Salata, e il rosato, La Lena, di Andrea e Daniela. Il rosa è porta il nome della loro piccola <3
Daniela, amica, questa ricetta è proprio dedicata a te. Aspetto la marmellata di uva, dai che ci facciamo la parte tre <3 ;-*
A presto
emanuela
Io TI AMO.. (vediamo se cominciando così il blogghino non mi ”modera”, mi accetta semplicemente e gentilmente) .. e oggi mi son fatta un pianto doppio…
Prima questa mattina in seduta (che tanto ormai qui son di casa e sta mattina, mentre tu eri incartapecorita a scrivere questa meraviglia per noi, io partivo per Pesaro, per la ”pesa”) ed ora qui, perché mi hai fatto salire troppe cose nella mente, nel cuore e poi negli occhi ed in qualche modo son dovute uscire.. tante immagini piene di bambini dell’asilo in fila indiana con i grembiulini che in ottobre andavano dal signore a fare la vendemmia e poi, una volta tornati dentro, nel salone pigiavano a turno l’uva nella mastella sotto lo sguardo attento di suor Attilia… e poi i bigliettini ormai ingialliti di ricette della nonna Gina che custodisco con una gelosia assurda… lei, che non sapeva scrivere bene, aveva solo la prima elementare, appuntava con una grafia (di)storta dosi per le castagnole, i bignè, la crema…. ed ho un suo libro di pasticceria tutto rotto che adoperava quando aveva la rosticceria…
Anche io ho un libro di raccolta di ricette della mia ”zona” ibrida come mi piace chiamarla … che sta nel mezzo tra toscana, romagna, umbria e marche… contaminata da un sacco di tradizioni… e mi piace perché la carta è marrone, come fosse cartapaglia, alcune ricette le conosco, altre invece sono gemelle diverse da quelle che mi faceva nonna… Quanto amo il passato Ross ed ogni volta che vado dalla zia ”Netta”, quella della vendemmia ”famigliare”, mi perdo nei suoi racconti e le dico sempre che deve insegnarmi a fare il bostrengo, come faceva lei, a fare LA torta di avellani (che è più una frolla, perché è fai conto un croccante per forma e dimensioni ma fatto di impasto e avellani, da rompere con le mani… è una BOMBA! BUONISSIMO!) …. I maritozzi del ”forno” cioè delle ragazze che vado ad aiutare hanno il succo d’uva, i semi d’anice, le noci e l’uvetta e sono fatti con pasta madre ed hanno la forma di un panino tondo… mandano un profumo…
Ecco.. oggi ti dico grazie per avermi fatta piangere quasi da non riuscire a scrivere perché gli occhi offuscati non vedono bene (già che so mezza orba!) grazie per avere questo CUORE, ENORME, SENSIBILE, BELLO, VERO, REALE…
Ti voglio bene…
Manù
Rossella
Manùùùùù!
Allora mi sono commossa un po’ anche io leggendo i tuoi ricordi, che è quasi fossero i miei, anche se di fatto i miei sono diversi, ma tutto qui si mischia ed è bellissimo, e poi era una cosa a metà tra il piangere e il ridere, che di primo acchito avevo letto Suor ATTILA ahahha!!!
E comunque, ti ho risposto anche agli altri commenti, e sempre tra il ridere e il piangere, o il piangere dal ridere, gmail pure oggi mi ha notificato il tuo commento tutto bordato di rosso, e solo dopo che io gli ho detto sta’ sereno’ ;), mi fa “allora il commento sembra sicuro” (non era ancora convinto nonostante me ;))
emanuela
Oddio… cuore mio.. suor Attila! ti AMO! oh, so andata a rilegge perché se sa mai c’è caso che avessi sbagliato a scrivere… anche perché tanto simpatica non era nemmeno sai??? piccola piccola secca secca con il naso aquilino e gli occhiali, rigorosissima .. una signorina Rottermaier in versione suora.. ed io ero nella sual ”scuolina” le chiamavamo così le classi dell’asilo..
Comunque fai delle foto che madò… non si spiegano… cioè ma la vedi la foto dove Daniele versa l’uva??? cioè TI RENDI CONTO DI CHE ROBE FAIIIIIII?????
Ha poi?! tu Pellegrino Artusi ed io ieri a fare la tua crostata di lenticchie… vabbè.. lasciamo stare..
ps: voglio anche io la marmellata di uva.. cioè voglio il terzo appuntamento qui con anche altre 500 mila foto grazie!
pss: ti arriverà un’altra notifica di commento rosso, sono io cuore… la rossa Manù
baci.. vado a fare il banana bread tuo con grano saraceno, noci e cioccolato per il moroso di mia sorella.. che.. sarebbe mio cognato vero???? zi,, lui…
baci meraviglia..
Rossella
Suor ATTILA ehehehhe ;) :*
Marina
Dici bene mia cara amica, quel libro mi piacerebbe tanto.
La ricerca bibliografica che mi accompagnava anni fa su lavoro l’ho applicata alla cucina e tu sai con quale piacere replico, fedele alle mie fonti, le ricette di qualche decennio fa… grazie per il pensiero che mi hai dedicato. Tu, forse più di altri, sai quanto ami le mie radici <3
Rossella
Mari eccomi!
Sì, un po’ le radici, un po’ il metodo, un po’ l'”occhio”… <3
E poi come si fa a non pensarti in certi casi? ;) :*
Rossella
Ma poi come hai fatto a “beccarmi”?
Pare che se non posti sui social il blog non lo veda più nessuno, e invece io mai come ora ho voglia di scriverlo, e leggerlo! Cioè leggere i blog che amo…
E’ vero che il tempo è tiranno, ma qui tocca opporre resistenza! ;-P